Le Caserine
Era un giornata di nubi basse cariche di umidità. Un leggero pulviscolo di piccole gocce d'acqua stava sospeso nell'aria, ad inumidire le vesti ed appesantire il fiato. Non un anima viva avevo incrociato in quella anonima giornata di metà novembre, mentre mi accingevo a scendere la mulattiera che scendeva da Prà Montagna, sopra Cesiomaggiore, mio paese natale.
L'atmosfera invitava maggiormente a chiudersi ancor più nei pensieri che formuliamo ogni qualvolta siamo di ritorno da una salita, mentre distrattamente evitavo il pietrisco più grosso o quello più levigato, infidamente bagnato.
Procedevo così forse da una decina di minuti, quando uno squarcio tra le nubi mi fece quasi sovrapensiero alzare gli occhi dal terreno davanti a me. Tra la feritoia di alberi grigi che affiancavano la strada, si presentava il versante opposto della valle, in egual maniera ammantato da una monotona distesa di piante spoglie. I boschi erano ripidi e divenivano quasi verticali via via che scendevano verso il fondo della valle. Lì, proprio nel punto più basso, dove tutti i canali terrosi di quei versanti andavano a confluire, si riconoscevano due enormi spalle di nuda roccia poste una di fronte all'altra, di un grigio antracite a causa della pioggia del giorno precedente: le Caserine.
Conoscevo quel posto, vi ero stato altre due o tre volte, circa venticinque anni prima, e quasi la loro esistenza mi era passata di mente. Le Caserine era uno dei tratti più angusti che aveva il torrente Salmenega nel suo procedere dalle Tre Ponte verso valle. Un breve canyon asciutto con pareti di calcare levigato alte, a ricordo, una cinquantina di metri, ed intervallate qua e là da scoscesi canali terrosi da dove si prontendeva qualche carpino contorto o qualche piccola felce. Il luogo non era, come si suol dire, dei più ameni, ed il silenzio del posto era oltremodo sottolineato ogniqualvolta da un refolo di fastidioso vento che da sempre ve ne era imprigionato.
Il perchè conoscessi quel luogo così poco attraente è presto detto. Nei primi bollori adolescenziali di trovare una parete da arrampicare, mio padre mi parlò di una parete dove lui, Tito, Corrado ed altri avevano salito delle vie per allenamento. Erano i primi anni in cui arrampicava, il periodo dei Boàt, verso la metà degli anni sessanta. Allora le pareti del fondovalle erano ancora palestre, non falesie, e non godevano della dignità che vi si dà al giorno d'oggi. Erano pareti da salire per allenamento alle pareti più alte delle più alte cime, e basta. A riguardò rovistò per qualche minuto in una vecchia scatola di latta, per poi mostrarmi una foto in bianco e nero. Nel piccolo rettangolo di cartoncino dai bordi seghettati si vedeva un pilastro di roccia chiara, in parte illuminato da un raggio di luce. Nella parte bassa lo spigolo formava un diedro appena accennato, che si coricava leggermente a destra. Nel mezzo, un giovane ragazzo saliva, con la corda legata in vita: due anelli di cordino a tracolla, un martello, qualche chiodo. Nessun casco, nessun imbraco.
Carico di curiosità partii qualche giorno dopo la visione della foto con il sempre presente Alberto alla volta di questo luogo misterioso. Con il mitico Testi Militar risalimmo motorizzati il ripido sentiero che portava allora a Prà Montagna fino al tornante da dove partiva una vecchia traccia abbandonata. Lì parcheggiammo il mezzo e risalimmo per un quarto d'ora il fondo della valle, fino ad arrivare allo scenografico ingresso. Da subito vedemmo le due-tre vie presenti, alcune di queste a chiodi a pressione. Eravamo indecisi. Non so se furono le difficoltà al di sopra della nostra portata, oppure l'ambiente particolarmente opprimente, fatto stà che ritornammo a casa senza aver neanche indossato l'imbraco.
Qualche anno dopo riprovai a ritornare: si sa che alle volte le prime impressioni ingannano. Invece niente: l'ambiente angusto non mi piaceva, mi sentivo a disagio anche a causa di quel silenzio quasi innaturale. Così abbandonai l'idea definitivamente, per poi relegare il tutto al dimenticatoio.
Lo scorso autunno, pochi giorni dopo la visione che feci in mezzo alle nuvolaglie novembrine, mio padre mi arruolò per dare una mano nel bosco di mio santolo Tito. Nel taglio, alcune belle piante di carpino nero erano restate da parte causa la posizione alquanto scomoda, su un versante particolarmente scosceso di rocce rotte. L'avere qualche nozione di corda avrebbe reso il taglio certamente meno pericoloso.
Così mi ritrovai, motosega in mano, sull'appezzamento boschivo che si trovava, guardacaso, appena a valle delle Caserine. Durante la mattinata, ogni tanto alzavo lo sguardo a vedere le rocce che spuntavano incombenti sopra gli spogli rami.
Finito il lavoro, mentre Tito riordinava nello zaino bottiglie di miscela, carrucole e cordini di rafia, chiesi a mio padre se avesse voluto accompagnarmi a ridare un occhio alla sua vecchia palestra. Dopo averci pensato un attimo annuì, chiuse lo zaino color verde bosco, e ci avviammo alla poco distante gola.
All'ingresso, un velo di brina ricopriva i sassi levigati del greto asciutto, mentre il vento da subito fece sentire la sua presenza con il suo perenne sibilo. Salimmo con attenzione tra sasso e sasso fino al piccolo spiazzo piano racchiuso in mezzo ai pilastri di potente calcare.
Senza che gli chiedessi niente, mio padre iniziò a raccontare.
“Quella fu la prima via, la iniziai da solo. Poi la continuai anche con Tito “ ;“Quella a sinistra la fece qualche anno dopo Corrado mi sembra”.“Là dietro, in quella cengia – lo vedi il vecchio cordino di sosta?- una volta Fabietto il cugino di Corrado volò giù senza essere legato. Stava preparandosi a fare una doppia” stimo l'altezza sui dieci-dodici metri “Fortunatamente precipitò sopra quel vecchio sambuco, e se la cavò con qualche graffio e qualche risata”. “Là non mi ricordo, forse era Tito Pierobon che era venuto su con Carazzai, ma non ne sono certo” “Quei chiodi a pressione lassù li avevo pensati e fatti in forgia da tuo nonno: gli davo un quarto di giro al profilo quadrato invece che rotondo, così quando ci si appendeva il chiodo si avvitava sempre più”. E via così, storie ed anneddoti di cinquant'anni prima. Gli episodi si susseguivano. Apparirono nomi a me familiari, altri un po' meno. Mentre mio padre raccontava, mi chiesi tra me e me chi si ricorderà di loro, delle loro avventure giovanili, di questo luogo destinato già dalla nascita all'oblio. Continuai a fargli domande: ad alcune seppe darmi una risposta, ad altre no; era passato troppo tempo.
Dopo un po' smise di parlare. Guardò per un attimo ancora in alto, silenzioso. Poi d'improvviso scattò brevemente con il braccio verso il basso quasi a scacciare un insetto fastidioso, si girò e si diresse deciso senza voltarsi verso lo zaino ed il lavoro che aspettava fuori della piccola gola. Restai per un attimo ancora lì, guardando quei chiodi, quei cordini oramai diafani nella loro immobilità. Poi, lentamente, mi avviai anch'io verso l'uscita. E mentre vedevo il profilo di mio padre che seguitava ad uscire, sentii un qualcosa di appena percettibile. Mi fermai per ascoltare meglio: nessun rumore. Mi guardai attorno a vedere se c'era magari qualche bestia, qualche animale, ma niente. Poco convinto ripresi a camminare. Dopo qualche passo però, ritornò lontano quel brusìo leggero. Mi fermai nuovamente, immobile, senza voltarmi, deciso questa volta a scoprirne l'origine. Nei primi attimi non percepii niente. Qualche foglia ogni tanto cadeva con il suo rumore vuoto e secco. Poi, sottile come un filo di seta, qualcosa emerse dal fondo di quel silenzio.
Tìn tìn tìn.. un martello risuonava argentino, cadenzato da colpi regolari. Trattenni il fiato. Al martello poco dopo si aggiunsero delle voci di ragazzi. Sentii chiaramente un confabulare ilare e delle risate, ed il rumore inconfondibile che fanno i moschettoni tra di loro. “Sono pazzo? Non può essere ..” Mi girai di scatto.
Niente: dietro me non c'era nessuno . Il sottile rumore che prima avevo sentito era sparito. Affinai l'udito, ma non servì a nulla: solo silenzio. Stetti li, a guardarmi attorno ancora per qualche secondo. Tutto era restato immobile come prima. Le pietre bianche levigate dalle piene erano lì, al loro posto, così come i canali terrosi senza nome, con le loro felci ed i loro carpini contorti. Nulla si era mosso. A quel punto lasciai da parte le mie impressioni. Diedi le spalle alla piccola gola, e mi diressi anch'io verso l'uscita, mentre dietro me, imprigionato all'eternità, restava solo l'incessante lamentìo del piccolo refolo di vento.
Paolo