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Capo Palinuro Il Gorgo

Capo Palinuro Il Gorgo Il Gorgo

“La cartina ora dice di girare a destra: possibile? Non mi dire che la strada entra per quella gola..” E invece si. Con qualche curva scendiamo sempre più fino all’imbocco della enorme fenditura che ci si prospetta davanti. Passiamo sotto all’arroccato borgo abbandonato di San Severino e poi ci infiliamo nel budello


roccioso, dove pendii prativi quasi verticali si alternano a falesie color mattone striate da canne. Poco dopo la gola concede un po’ di più spazio alla luce. Lasciamo sulla sinistra il bivio per Camerota mentre scendiamo verso il mare poco lontano. Sulla destra, sul greto del fiume, un gruppo di vacche bianche guada libero le acque cristalline del Mingardo. Arriviamo brevemente nei pressi del mare. Sulla destra appare la gobba di Capo Palinuro con le sue scogliere e il suo etimo carico di epos. Noi andiamo a sinistra, verso Marina di Camerota, rasentando alte falesie e canaloni invasi dalla vegetazione a pochi metri, se non al di sopra della strada.
In queste vacanze avevo caricato in auto tutto l'occorrente per arrampicare. Oltre a corde, imbraco, scarpette, avevo portato, tra le altre cose, il trapano a batteria e dei fix inox marino, per eventualmente attrezzare qualche monotiro nei pressi del mare. Da quel che sapevo in tutta l'area c’erano solamente tre vie alpinistiche da parte di Alessandro Gogna, Andrea Savonitto e Giuseppe “Popi” Miotti, poco o mai ripetute, e la lunga e magnifica falesia della Molpa. Nient’altro. Ma le vacanze sono vacanze, e così passarono parecchi giorni prima che mettessi le mani sulla roccia. Intanto mare, sole, maricucciata, mulignane mbuttunate e mozzarella di bufala impegnarono i rari tempi morti che mi concedevano i miei tre bambini. Alla spiaggia dell’Arco, rovinata da un mega finanziamento da sette milioni di euro per la “messa in sicurezza” delle pareti (..) andai a guardarmi, mentre nuotavo, la bella linea di “Sole Bong”, una via di circa cento metri che segue una bellissima successioni di diedri. Ripetei il caratteristico primo tiro, dove era necessario all'inizio bagnarsi i piedi per poi attaccare la roccia ed effettuare un particolare traverso a sinistra di una ventina di metri a pochi centimetri dalle acque trasparenti.
Nella nuotata che avevo fatto al ritorno, avevo però guardato anche oltre, sopratutto al bel pilastrone che continuava sopra il mare turchese. Le pareti si innalzavano da subito con forti strapiombi, ma a circa una trentina di metri da “Sole” una crepa obliqua scendeva fino al mare. Mi avvicinai così fino alla sua base, dove l'erosione delle acque aveva formato una piccola grotta che amplificava l’altezza delle onde. Salii scalzo il caminetto soprastante di pochi metri, reso viscido dalla salsedine, fino a rimontare su una serie di solidi scalini di calcare bianco. Li risalii fino alla base di uno strapiombino. Al di sopra la crepa continuava diritta e giallastra.. “..Chissà..” pensai. Mi girai, e con un tuffo ritornai in acqua.
Nei giorni successivi ripensai alla linea sopra il mare... la parte centrale sembrava duretta. Io non arrampicavo da mesi e mi sarebbe piaciuto salirla senza forare la roccia. Ma poi con tre bimbi, da solo.. non è che rischiavo troppo a chiodi e nuts? E poi: i chiodi quanto avrebbero durato? Due anni? Tre?. Si sarebbero gonfiati dalla salsedine per poi essere, se non utilizzabili, pericolosi eliminando la possibilità di proteggersi a chi veniva dopo? E ancora: se mi facevo male, chi veniva a prendermi su una parete dell’estremo sud della Campania al di sopra del mare?
Queste ed altre seghe mentali, vedi scuse, affliggevano la mia mente, mentre mangiavo la quindicesima alice alla Cilentana, sudando come Adinolfi in sauna, mentre dal ristorante guardavo il poco distante mare assaporandone il cullante sciabordio.
Il continuo pensare mi portò comunque ad una decisione, non senza uno strascico morale: avrei tentato. Ma con il trapano meco da utilizzare il meno possibile.
A quel punto sorgevano ulteriori problematiche: come portare tutto il materiale all’attacco sopra le acque? Soprattutto quando con se si aveva un trapano a batteria. E come issare il materiale sui solidi scalini bianchi a cinque metri dal mare, quando per arrivarci bisognava arrampicare direttamente
dall’acqua con un alta probabilità di scivolare nei primi metri? Fregare al mattino presto un pedalò? Calarmi dall’alto?
Un bellissimo canotto azzurro di un metro e venti per ottanta centimetri con stelle e cavallucci marini comparve improvvisamente il giorno dopo tra le braccia gioiose dei miei pargoli: lo gonfiai per bene, controllai la tenuta e la stabilità caricandoli tutti e tre contemporaneamente per poi trascinarli a destra e sinistra.. tutto sembrava filare liscio: oramai il dado era tratto.
Misi la sveglia alle quattro e un quarto del mattino, così da poter sfruttare il fresco che precede l’alba e così da non avere gente attorno. Misi il furgone al di fuori del cancello del campeggio, preparai lo zaino ed il materiale. Ma la notte mi girai e rigirai dal caldo, e così i bambini. Quando la sveglia suonò, la bloccai e la spensi.” Sono in vacanza si o no?” pensai prima di riaddormentarmi. Il giorno dopo ritentai: rimisi l’auto al di fuori del cancello, la sveglia sempre alle quattro e mezza. Questa volta dormii da solo nel letto singolo di una stanza/sgabuzzino, senza il disturbo dei piccoli. Ma il caldo era sempre elevato, e così, nel dormiveglia, si insinuò nella mia mente, un terribile sogno disturbato.
Questo incubo era il frutto della commistione di due pensieri, che serbavo nella parte più profonda del mio io:
La prima era la sensazione di vertigine e di vulnerabilità che da sempre mi prendeva quando aggiravo un promontorio sul mare, esponendomi cioè al cosidetto “mare aperto”. Non era la paura di nuotare sopra acque profonde, anzi.. avevo già attraversato in tutti i sensi parecchie cale e baie, anche da un estremità all’altra. Ma quando doppiavo uno dei due capi che delimitavano l'insenatura in cui mi trovavo era come se provassi la sensazione di essere di fronte ad un abisso orizzontale. A quel punto di solito facevo dietrofront, ad una velocità che Pelphs non sarebbe stato in grado di reggere.
L’altra cosa che mi affliggeva era il ricordo di un episodio che avevo letto una volta che ero andato ad arrampicare a Gaeta. Nel leggere le relazioni, incappai nel racconto di Fabrizio Antonioli di quando, calandosi dall’alto sulle verticali scogliere per attrezzare una via di più tiri a spit, notò al di sotto di lui il muoversi sinuoso di uno squalo bianco. E se lo aveva detto un ricercatore in ambito marino, di sicuro non era Flipper.
Questi due pensieri si alternavano e si confondevano nel dormiveglia l’un l’altro nella mia mente: Cosa avrei trovato nella solitudine del mattino in quei cinquanta metri a nuoto che mi separavano dall’inizio della “mia” linea?
Quando risuonò la sveglia, come il giorno precedente, mi rigirai dall’altra parte per aspettare condizioni mentali stabili. E la cosa si ripetè anche il mattino seguente.
Restava oramai solo una mattina disponibile, poi avremmo dovuto partire verso mezzogiorno per il rientro a casa. Ultima chanche.
Quando la sveglia suonò, la tentazione di rigirarmi sul letto si ripresentò .. poi, nel profondo, una piccola vocina interna che sarebbe il mio misero orgoglio mi sussurrò un deciso “Alzati coglione!”. Così finalmente saltai in piedi. Approfittai della decisione repentina per uscire immediatamente dalla porta del bungalow, scavalcare furtivamente il cancello del campeggio chiuso per la notte, e partire nell’oscurità alla volta di Palinuro.
Dopo aver sfiorato nella notte qualche maremmano rinselvatichito che zigzagava sulla strada, arrivai alla spiaggia dell’arco che iniziava ad albeggiare. Tutto era deserto, il mare calmo: che bellezza..
A quel punto iniziò la logistica per l’avvicinamento: gonfiai il canottino, mentre al suo interno inserii lo zaino con tutto il materiale ed il sacco corda. Li collegai in sequenza a sei, sette metri l’uno dall’altro con la corda stessa, per poi bloccarli con un nodo. Poi mi legai il canottino in vita

con un cordino di qualche metro. Scarpe da scoglio ai piedi, maschera,costume, boccaglio.. “Che minchia di attività stò facendo?” Mi domandai. “Snorkdivinbing?”
Il mare pieno di squali che mi avrebbe attirato verso il largo era ora davanti a me: ben diverso da quello che mi appariva nelle scorse notti nei miei pensieri. L’acqua appena mossa, non il rumore di un motore. Mi tuffai quindi per poi iniziare a nuotare, con la mia zavorra che mi seguiva fedelmente come fosse sospesa. Passai il terrazzino di attacco di “Sole Bong”: “..Dai che venti metri li ho fatti..me ne mancano solo trenta..” Proseguii un po’ più veloce.. “..Dai mò, Paolino, cosa vuoi che ci sia, se non qualche pesciolino?...”
MMMMBBBBBUUUUUOOOOOOMMMMMMMMVVVVRRRR!!!!!!!!
Un gutturale, profondo, lugubre verso mi entrò per le orecchie, così potente da far addirittura vibrare l’acqua attorno a me. Mi girai attorno di scatto da una parte all’altra ma non vidi niente. “Che bestia mai è a fare questo rumore??” MMMMBBBBUUUUUOOOOMMMMVVVVRRR!!!! Di nuovo il terribile verso riapparse. “Porca puttana.” Iniziai a nuotare a più non posso verso la oramai vicina crepa. “Vedi che i miei pensieri erano profetici?? Via, via viiiAAAA!!!”
Oramai a pochi metri dalla crepa, tra le bollicine che generavo con le mie bracciate disperate, notai sulla parete due grossi fori comunicanti, alti quanto una persona, a circa tre metri di profondità. L’ acqua nel suo movimento ne entrava e ne usciva con un evidente inerzia, creando un sacco di bolle, ma soprattutto il rumore infernale.
“MMMMBBBBUUUUUOOOOMMMMMMVVVVRRR!!! “Ripeteva il mare infilandosi in quella oncia naturale. Risi di me stesso, o meglio: non me la feci più sotto, e con l’animo più rilassato arrivai finalmente al camino viscido.
Slegai zaino e corda e risalii al secondo tentativo agli scalini di roccia bianca. A quel punto iniziai a recuperare la corda, così in poco tempo venni raggiunto dal sacco corda e dallo zaino. Gli incastrai per bene nella crepa per poi recuperare il gommone con il cordino legato in vita, così da sgonfiarlo e riporlo anch'esso nella fessura, per non esporlo alla caduta di pietre. Nel piccolo spazio dove ero mi organizzai per salire. Partii. Il primo strapiombino lo superai facilmente attraverso una bellissima lama a sinistra. Poco sopra il diedro giallastro che avevo individuato qualche giorno prima saliva sopra di me, ma da vicino notai essere di una roccia un po’ sabbiosa che non mi rassicurava. Evitai quindi la prima parte salendo più a destra per poi rientrare nel diedro con un movimento particolare. Il diedro continuava a non ispirarmi, così notai a sinistra una nervatura di rocce lavorate a gocce d’acqua che portavano ad un evidente diedrone appoggiato. Non mi fidai a proseguire con l’ultima protezione, un nut, a 5 metri da me:“Se cado qua, sbatto di certo sul terrazzino” pensai, così decisi di mettere il primo fix. La sezione a goccie d’acqua successiva si rivelò bellissima e richiese altri due fix prima di permettermi di ristabilirmi sul diedrone. Con un corpo a corpo di una decina di minuti venni a capo di un estenuante e (per me) sanguinolenta lotta con un ginepro secolare per infilarmi tra lui e la parete. Seguirono dei facili gradoni che condussero ad un comodo pulpito roccioso. Attrezzai la sosta, lasciai il materiale in eccesso lì, bevvi qualcosa e poi ridiscesi allo zaino, togliendo gran parte delle protezioni. Risalii arrampicando, e, con la corda dall’alto feci la prima parte del diedro giallo, fino al primo fix, che si rivelò meno difficile di quel che sembrava. Al pulpito mi riorganizzai per il secondo tiro. La mia idea era di ritornare sulla verticale del diedro giallo, dove questo si appoggiava, per poi seguirlo fino ai prati soprastanti. Salii così la compatta pancia sopra la sosta protetto anche qui da un fix che mi fece fare a cuor più leggero un tratto obbligatorio. Seguì un traverso con vegetazione, e poi su fino ad un gineprone secolare. La difficoltà qui aumentava, così, protetto dal ginepro, iniziai a salire a mò di camino, un piede sula roccia ed uno nella pianta, fino a rocce meno difficili ma continue, che con qualche bestemmia mi portarono al terrazzo sommitale. Andai a sinistra ad un altro gineprone e feci sosta. Via finita. Con le braccia incrociate davanti al petto mi battei sulle spalle: “Brao Paolino” mi dissi. Ripetei quindi l'iter dell'autosicura: Abbandonai momentaneamente il materiale in sosta, scesi alla

sosta sotto e, tolto il tutto risalii alla pianta. Ero stanchino: la pelle da infante già consumata, il caldo che iniziava a farsi sentire. Restava ancora un salto di rocce rotte ed appoggiate sopra di me, ma ormai era tardi: era ora di scendere. Buttai una doppia ed in un piccolo terrazzo attrezzai a fix un'altra sosta per la seconda doppia, che mi portò giusto giusto agli scalini bianchi della partenza. Un altro sorso, poi riorganizzai il materiale. Gonfiai il canotto, inserii lo zaino ed il sacco corda e legai tutto per bene, poi calai pian pianino con la corda legata in vita il tutto al mare ora ben più mosso del mattino. Gli ultimi centimetri calai millimetrico, così da verificarne la stabilità. Appena vidi che il tutto era in equilibrio, mi tuffai gioioso in mare. Una bracciata dietro l'altra mi diressi felice verso la spiaggia. Salutai con il pensiero il mio “mostro marino”, ed andai avanti a godermi la oramai vicina degna conclusione. Arrivai a toccare il fondo della spiaggia dell'Arco con i piedi: tutto era filato liscio. “Fine dell'avventura” pensai.
Non feci in tempo a finire il pensiero quando un onda più grande delle altre prese la mia piccola imbarcazione a traino, e girandola su sè stessa la fece affondare con tutto il suo contenuto. Corsi repentino a tirar fuori i due zaini, ovviamente zuppi, indirizzandomi subito a controllare il trapano che però, fortunatamente non aveva subito che una veloce immersione nell'acqua salata.
Mentre rimettevo via il materiale guardai il mare, pensieroso. “Che sia stato un avvertimento?” pensai. “ Un piccolo dispetto per farmi capire che forse tutte le paranoie notturne delle notti precedenti avevano un fondo di verità? Che un po' di quella paura che avevo al mattino era giusto averla?” Forse era stato un modo da parte del mare per farmi capire che lui non era l'Adriatico a Caorle, ma il Tirreno: una distesa d'acqua dove Nettuno/Posidone è ancora presenza, e dove eroi del calibro di Palinuro o di Odisseo avevano naufragato. Figurarsi cosa avrebbe potuto fare con un Feltrino con al seguito un canotto con disegnate le stelle marine che sorridono..
Rimisi alla rinfusa il materiale nello zaino, salutai con il pensiero Nettuno che mi aveva dato il nullosta di ritornare incolume all'auto, e quindi ripartii per il campeggio, dove qualcuno stava sicuramente reclamando un canottino colorato per giocare al mare.
“IL GORGO” è, a parer mio, una via particolarissima, che ha, nei canoni odierni, tutti gli ingredienti per non essere ripetuta: E' lunga, ma non troppo. Non è plasir, ma neanche alpinistica. E' discontinua, ed ha in alcuni tratti vegetazione che rompe un po' le balle. Ha il grosso problema dell' arrivare e ritornare all'attacco della parete. Ha poi alcuni passaggi particolari, come l'arrampicata “in camino” che si effettua con un piede sulla parete ed un piede sul ginepro a metà del quarto tiro. Un put-pourrì mineralvegetazionaletico che se dovessi associare alla cucina mi fa venire in mente il “Curanto”, il piatto tipico dell'isola di Chiloè a base di molluschi, pollo e maiale.
Penso che però offra anche delle belle sensazioni a chi non fa il delicato, e proprio le caratteristiche che ho elencato sopra possono diventare elemento fortemente caratterizzante di questa via. L'ambiente è bellissimo, sopra un mare spettacolare.
Il nome “Il Gorgo” lo ho pensato durante il viaggio di ritorno. Ero propenso a chiamare la via “Felice Caccamo's Wall”, anche se il nome non mi soddisfaceva appieno. Un cd che avevo inserito nel lettore del furgone mise ad un tratto un bellissimo racconto breve di Fenoglio “Il Gorgo” appunto, uno scritto che conoscevo quasi a memoria da quanto lo avevo ascoltato, interpretato dalla suggestiva voce di Lindo Ferretti. Così ribattezzai la via, in omaggio al piccolo gorgo marino che mi aveva fatto accapponare la pelle al mattino, e al contenuto profondamente filiale e di ascolto del proprio istinto che caratterizza il racconto dello scrittore Piemontese.

Paolo

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